Clownerie in ospedale | Risolvere
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DOTTOR SOGNI IN OSPEDALE: INTERVISTA ALLA DOTT.SSA FEDERICA CICU

La Dott.ssa Federica Cicu, dopo aver lavorato come Assistente Sociale nel campo della tutela dei Minori, orienta i suoi interessi al campo educativo e terapeutico. Dal 2000 lavora come Psicomotricista e TNPEE (Terapista della Neuro-Psicomotricità dell’Età Evolutiva) in campo educativo e terapeutico. Dal 2018, con Caracol-Progetto interdisciplinare per la formazione e l’intercultura, conduce corsi di formazione in ambito psicomotorio riconosciuti dal MIUR rivolti a docenti di nido, scuole dell’infanzia e scuole primarie. Da sempre nutre una grande passione per il teatro; dal 2010 lavora come clown-Dott. Sogni con Fondazione Theodora in reparti di pediatria, oncologia pediatrica e neuropsichiatria infantile in diversi ospedali a Milano. È autrice del testo “Facciamo finta di… Il teatro a scuola tra corpo e parola” e di diversi articoli per la rivista “La psicomotricità nelle diverse età della vita” ANUPI Educazione, ed. Erickson, di cui è membro della redazione.  

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Qui di seguito puoi leggere l'intervista alla Dott.ssa Cicu, rilasciata in esclusiva a www.Risolvere.org e condotta dalla Dott.ssa C. Navarra  

 

“DOTT. SOGNI”: COME NASCONO? 

Trovo molto poetico ed evocativo il termine Dottor Sogni”, che Fondazione Theodora ha scelto per gli operatori che supportano i bambini ospedalizzati e le loro famiglie. Forse ne intuisco il significato, ma mi piacerebbe sentire da te la storia di questo nome e di questo progetto. Ce ne vuoi parlare? 

La Fondazione Theodora nasce in Svizzera e prende il nome da Theodora mamma di due fratelli, i sigg. Pouli. Molti anni fa uno dei due ebbe un grave incidente e dovette stare per molti mesi in ospedale, con la madre a tenergli compagnia. Theodora era una donna molto creativa, un'animatrice e in tutti questi mesi di ospedalizzazione del figlio diventò una sorta di “personaggio” in quell’ospedale. Anni dopo i due fratelli decisero di dar vita a questa Fondazione, dedicandola a lei. Trattandosi della Svizzera francese, il nome originale scelto era quello di “Docteur Rêves”, con l’intenzione di dare alla parola “sogno” un significato molto ampio. Il primo sogno dei fondatori era proprio quello di onorare questa mamma che era stata così capace di far vivere al figlio questa esperienza [di ospedalizzazione] al meglio che poteva.  

Un modo potente e creativo per esorcizzare le paure, i dolori, le preoccupazioni in un momento così difficile da affrontare. Forse un modo per cercare di non lasciare andare quella parte giocosa e fiduciosa, indispensabile per affrontare le difficoltà nella vita di un bambino. Possibile che dentro alla necessaria ospedalizzazione per guarire può essere difficile tenere questi aspetti integrati al focus sulla cura fisica? 

Lo stigma è quello del bambino in ospedale “malato”. Ma il bambino rimane bambino, con tutte le parti sane che spesso non vengono valorizzate. Invece, proprio per valorizzare queste parti e tenerle in vita, nel 1995, nasce Fondazione Theodora in Italia. Il primo ospedale in cui abbiamo lavorato è l'Istituto Nazionale dei Tumori a Milano, in pediatria. Il progetto ha preso sempre più respiro, permettendoci di arrivare anche in altri ospedali come l’Istituto Neurologico Besta e l’Ospedale dei Bambini V. Buzzi, sempre a Milano; a San Donato interveniamo nel reparto di cardiochirurgia pediatrica; a Pavia interveniamo nel reparto di neuropsichiatria infantile dell’Istituto Mondino e a Monza nel reparto di ematologia pediatrica del San Gerardo. In particolare, all’ospedale Buzzi, lavoriamo sia nei reparti pediatrici, sia all'accompagnamento chirurgico, accompagnando fisicamente, e non solo, i bambini che devono affrontare la sala operatoria e l’iter preparatorio per arrivarci.  Fondazione Theodora è presente anche a Genova, Torino, Padova, Bologna, Roma e Napoli. In tutto siamo una trentina di “Dottor Sogni”, operativi in molte città per raggiungere quanti più bambini possibile.  

 

FORMAZIONE E APPROCCIO ALL’INTERVENTO  

Come fate a diventare “Dottor Sogni”? 

La Fondazione Theodora prevede una formazione iniziale di tipo artistico, e psicologico, che coinvolge anche una parte del personale ospedaliero, quindi medici e infermieri. Questo ci permette di condividere aspetti specifici molto importanti per la messa in atto del nostro intervento in ospedale. In seguito, viene prevista una formazione continua, attraverso la partecipazione annuale a due seminari di quattro giorni. Inizialmente, per entrare nel progetto, è richiesta una certa formazione artistica e teatrale. Tanti di noi sono attori o lavorano nel campo del teatro sociale ed altri hanno avuto esperienze teatrali, pur svolgendo, come me, altre professioni.  

Certo, capisco che una basi di formazione artistica nel campo teatrale possa essere imprescindibile per i Dottor Sogni, soprattutto pensando alla componente d’improvvisazione, che caratterizza i vostri interventi in ospedale, mi sbaglio? 

Uno degli aspetti più interessanti del lavoro del “Dottor Sogni”, è l’improvvisazione. Quando entriamo nelle stanze, pur indossando un camice colorato e qualche trucco, entriamo “nudi”, nel senso che non portiamo una performance preparata, ma semmai il nostro bagaglio di formazione artistica e personale da cui attingiamo. 

L’intenzione è di essere completamente in ascolto di chi incontriamo e comprendere in quale spazio, in quale tempo e soprattutto in quale atmosfera emotiva ci troviamo. Al tempo stesso, prestiamo attenzione al nostro essere presenti emotivamente, per vivere un incontro autentico con il bambino, con l’adolescente e con chi li accompagna.
Stare in ascolto significa accettare il vuoto, senza il bisogno di riempirlo subito, rimanendo in attesa di sentire cosa succede, bussando alla porta di una stanza. In quel momento siamo fragili, in massima apertura, in una sorta di disequilibrio, necessario a prepararsi ad un atterraggio, che non sempre è possibile. Chiediamo infatti permesso, pronti ad accettare un “no”, poiché condizione necessaria al nostro ingresso in quella stanza è il consenso di chi la occupa e la sua disponibilità ad aprirsi o meno all’incontro. 

I bambini e i loro genitori come vivono queste difficili esperienze? Come vivono e gestiscono la paura? Immagino che per voi Dottor Sogni sia davvero delicato “stare accanto” in queste situazioni.  

Dipende tanto dall’età del paziente, e dal vissuto dei genitori. Dipende anche dai reparti. A volte vediamo i bambini una volta, perché da lì a poco, fortunatamente, guariscono e vengono dimessi. Mentre in Ospedali come il San Gerardo o l’Istituto dei Tumori, vediamo bambini/ragazzi in lungodegenze, dunque si instaurano relazioni più durature e significative. Un aspetto fondamentale, su cui ci confrontiamo e ci formiamo molto, è riuscire a mantenere la “giusta distanza” o la “giusta vicinanza”. Il nostro contratto prevede un tempo limitato per gli incontri in ospedale, sono previsti dai dieci ai quindici minuti di permanenza nella stanza e questo forse da un lato ci protegge da un eccessivo coinvolgimento nella relazione. Giochiamo molto sul qui e ora, che diventa centrale, proprio perché il tempo che passiamo assieme è limitato. È ovvio però che con bambini e ragazzi che vediamo per lungo tempo questo necessariamente cambia, perché si instaura una relazione più forte e continuativa. 

La formazione di cui mi parlavi in precedenza vi aiuta a tenere queste differenti prospettive nella relazione con i bambini/ragazzi che incontrate? 

Sì, molto, per questo mi è mancata quando si è sospesa a causa del Covid e delle sue conseguenze, anche economiche. Attualmente stiamo riprendendo queste attività, che permettono una costante formazione, che diventa per noi una vera e propria “nutrizione”, sia dal punto di vista artistico, sia personale; si tratta di un tempo prezioso, in cui è possibile il confronto tra colleghi, l’incontro con personale ospedaliero e con formatori artistici sensibili al nostro tipo di intervento. 

Come riuscite a gestire il carico emotivo del vostro lavoro?  

Per questo abbiamo una supervisione psicologica di gruppo ogni mese e mezzo, in ogni città in cui lavoriamo. Sono due ore molto importanti, in cui non si condividono necessariamente le difficoltà che incontriamo ma, ciò che ci accade sul piano emozionale, condividendo aspetti che ciascuno si sente di condividere. I temi che si portano possono essere riconducibili alla relazione con i bambini, con i genitori, con il personale ospedaliero ed anche al rapporto con i colleghi. 

E come siete accolti in reparto dagli adulti, dal “personale ospedaliero” e dai “genitori”? 

In generale molto bene. Quando siamo rientrati dopo la pandemia c'è stata una bellissima accoglienza. Diversi di loro hanno condiviso una fatica enorme in relazione a quel periodo, anche perché non erano permesse le nostre visite, dei volontari, degli animatori: forse anche per loro è cresciuta la consapevolezza del valore del nostro intervento. I genitori che conoscevamo ci hanno ricevuto a braccia aperte ed è stato necessario accogliere i loro racconti in relazione al lungo periodo di isolamento.
Sono quindi ricominciati i “rituali” delle consegne iniziali con gli infermieri, con gli psicologi e gli assistenti sociali: prima di ogni intervento, all’inizio del turno, riceviamo le consegne relative ad ogni singolo paziente sia dal punto di vista sanitario sia dal punto di vista psicologico e sociale. 

Significa che, quando arrivate in reparto, vi raccontano dei bambini e dei ragazzini che andrete ad incontrare per poter personalizzare l'intervento? 

Più che per personalizzarlo, per condividere con noi quali precauzioni sanitarie sono previste per entrare in reparto e avere contatti con i pazienti. In particolare, in ospedali in cui ci sono casi neuropsichiatrici importanti, vengono date delle informazioni che ci permettono di capire chi incontreremo e se è il caso di porre delle attenzioni aggiuntive.  

 

LA PANDEMIA 

Cosa è accaduto al vostro lavoro durante lo sconvolgimento portato dalla Pandemia Covid-19? 

A causa della pandemia Covid-19 i Dottor Sogni hanno smesso di entrare nei reparti per due anni ospedalieri, dove svolgevano la loro attività dal 1995. Nel periodo di interruzione della nostra attività, abbiamo tentato di raggiungere i pazienti attraverso videochiamate e favole al telefono. Abbiamo mantenuto i contatti con il personale ospedaliero attraverso il progetto “Theodora entra nella stanza nonostante la distanza”.
Durante il primo lockdown, non dimenticherò mai un bambino affetto da leucemia, che, in un video rivolto alla cittadinanza, aveva raccontato come l’esperienza eccezionale della quarantena, fosse in quel momento per lui, come per altri bambini nelle sue condizioni, una condizione già vissuta a causa dei necessari isolamenti, determinati dello stato di immunodepressione dovuto alla malattia. Raccontava di quali risorse avesse già acquisito per viverla al meglio, dato che l’obbligo di isolamento, vissuto in quel periodo da molti per la prima volta, era un passaggio obbligato in tante situazioni di malattia in ospedale.  

E voi operatori da casa come avete vissuto questa lunga sospensione del vostro lavoro? 

Dalla nostra “fortunata” quarantena, abbiamo cercato di mantenere un filo con il nostro lavoro, anche attraverso una formazione a distanza, promossa da due colleghi che ci hanno proposto di riflettere in modo artistico e creativo sul nostro lavoro. È nato il progetto Una stanza tutta per sé, presentato lo scorso anno al Festival Andersen di Sestri Levante: si tratta di un video realizzato durante la pandemia, in cui ognuno di noi racconta artisticamente quali valori, emozioni e scoperte sono insite nel nostro intervento in ospedale: ascolto, incontro, cura, soglia, vuoto, fragilità, leggerezza, comicità, paura della morte. A distanza di due anni dall’inizio della pandemia siamo finalmente rientrati in ospedale, personalmente con maggiore consapevolezza.
Le riflessioni e i vissuti condivisi durante la pandemia ci hanno portato a focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti quali lo spazio, la soglia, il dentro e il fuori, l’importantissimo valore della presenza corporea nell’incontro e di quanto può essere potente, se autentica e in apertura.  

Com’è stato poter riprendere il vostro lavoro nei reparti ospedalieri? Rispetto a prima della pandemia, è cambiato il modo di concepire il vostro lavoro? 

Quando abbiamo ricominciato ad entrare nei reparti non potevamo utilizzare oggetti per questioni igienico-sanitarie e tutt’ora dobbiamo utilizzare la mascherina chirurgica: è stato ed è interessante sperimentare, ancora più di prima, tutte le potenzialità dell’espressività corporea, attraverso il movimento in relazione allo spazio, l’uso della voce, la potenzialità degli sguardi e scoprire la bellezza di lavorare con nulla, solo con le potenzialità dell’espressività corporea.
In molti reparti, il personale ospedaliero ci ha accolto con molto entusiasmo; hanno condiviso con noi l’enorme fatica vissuta durante la pandemia e di quanto sia siano sentiti privati di numerose opportunità, tra cui il nostro intervento. Con alcuni di loro abbiamo condiviso il desiderio di organizzare in un prossimo futuro un convegno sul tema della cura, intesa in senso ampio: una cura della persona che comprenda quindi i diversi aspetti (sanitario, sociale, espressivo, psicologico), che necessariamente devono agire in connessione. 

 

BUSSARE ALLA PORTA E STARE IN ASCOLTO 

Ho letto con interesse il tuo articolo “La fragilità è la potenza del clown” in La Psicomotricità nelle età della vita”, ANUPI Educazione, Vol.3, n.5, Ed. Erickson, 2023. Mi ha colpito il vostro “bussare alla porta e stare in ascolto di ciò che accade”. Ci vuoi raccontare meglio cosa succede nel delicato momento del vostro “presentarvi alla porta”? 

Noi bussiamo alla porta e chiediamo il permesso di entrare. Alcuni si affidano con molta apertura. In tante occasioni invece riceviamo un “no”. Magari perché i pazienti stanno troppo male, fisicamente o emotivamente, oppure i genitori non hanno piacere della nostra presenza nella stanza.  
Incontriamo anche bambini e famiglie provenienti da nazionalità diverse e quindi portatori di tante culture differenti. Il bello, in questi casi, è che col nostro linguaggio è possibile fare interventi superando la barriera linguistica.  
Il linguaggio corporeo ci permette di fare interventi in cui non parliamo, ma nasce comunque un gioco, una comunicazione, che ci aiutano comunque a costruire una relazione significativa. Il nostro intervento non è mai volto a fare spettacolo, ma è sempre molto interattivo, volto a coinvolgere il più possibile i presenti a creare una relazione di sollievo, in cui si sentano partecipi anche solo per quei 10, 15 minuti in cui rimaniamo con loro.  
Se alla base è presente l’apertura all’incontro, qualcosa succede sempre.  
Come dicevo, abbiamo svolto diverse formazioni sul tema del vuoto, sull'accettare che quando entriamo in una stanza non necessariamente deve succedere subito qualcosa; la bellezza è stare in ascolto di ciò che c'è e usare ciò che c'è per creare qualcosa insieme. Possiamo usare anche materiale che troviamo nella stanza, quindi, ad esempio, un letto può essere “suonato”, un armadio può diventare un nascondiglio, oppure possiamo utilizzare qualcosa che abbiamo portato noi. Ognuno di noi indossa un camice personalizzato, con il proprio nome di Dottor Sogni scritto sul retro; io, ad esempio, sono la Dottoressa Pupilla. Abbiamo un camice pieno di tasche da cui spesso escono magie, pupazzi, bolle di sapone e tanto altro.  

 

NELLA STANZA DEI PAZIENTI

Hai voglia di raccontarci di un incontro che hai vissuto durante il tuo lavoro, per farci capire che cosa succede quando entri nelle stanze dei pazienti? 

Me ne vengono in mente tantissime.  
Negli ospedali con lungodegenze, dove ci sono casi di isolamento sanitario, le porte delle stanze hanno il vetro; un vetro per noi molto utile, che spesso diventa per noi il palco ideale per mettere in scena il nostro teatrino. Laddove non possiamo proprio entrare per il rischio di infezioni, è molto bello riuscire ad usare questa soglia tra dentro e fuori. Lì facciamo il gioco del cucù, facciamo il teatrino con i pupazzi, lasciamo in bella vista delle cartoline con dei messaggi per i piccoli pazienti.  
Pensando alla soglia ricordo un particolare intervento: spesso i bambini malati di leucemia sono sottoposti a trapianto del midollo e spesso è un parente a fare da donatore. In quella situazione c'erano due sorelline, quindi il papà nella stanza con la bimba donatrice e la mamma nell'altra stanza con la bimba malata. Sapendo di questa situazione, ho cominciato a fare da “postina” tra le sorelle, che si mandavano messaggi: è stato molto emozionante.  
Poi ricordo una ragazzina diciassettenne, di nazionalità cinese, malata di leucemia, che parla poco l'italiano. La madre parla solo cinese. Il mio rapporto con lei, durato a lungo, per tanti mesi, è iniziato con il vuoto. Col tempo è diventata la mia maestra di cinese. Io tentavo di imparare e lei di insegnarmi. Io, ovviamente, pronunciavo malissimo il cinese e per lei e per la madre era spesso motivo di grande ilarità. Si è creato un nostro linguaggio, né cinese, né italiano, che ha permesso lo svilupparsi di una relazione in cui l’ironia è al centro e questo aspetto porta molta leggerezza nell’incontro. 

Ti ringrazio per la generosità con cui hai condiviso le tue esperienze sul campo, che ci permettono di immaginarci ed immergerci nei tuoi incontri in ospedale. Sono racconti dai quali emerge la forza del legame che nasce attraverso la condivisione di un’esperienza breve, ma intensa e vitale. Complimenti!

 

IN CONTATTO CON LE EMOZIONI   

A Milano, in alcuni ospedali, è attivo il servizio di accompagnamento chirurgico. In questo contesto è necessario aiutare i piccoli pazienti e i loro genitori ad affrontare il momento anche aiutandoli ad esplicitare la paura e ad esorcizzarla. 

Quindi non negarla, ma mettersi in relazione con quello che si sta per affrontare? 

Si, affrontando il momento con gli strumenti del Dottor Sogni, spesso surreali, leggeri, comici ma sempre in relazione all’emozione che ci arriva. 
Invece, a Genova, abbiamo avviato un progetto nel reparto di ostetricia e neonatologia e, anche lì, si fa un lavoro bellissimo, molto delicato con le mamme in attesa, con le neo-mamme e con chi le accompagna. In questa situazione siamo presenti per “festeggiare” la vita, momento entusiasmante, ma anche delicato. Interveniamo anche in un Hospice Pediatrico, sempre a Genova; in questo contesto il tema della morte o comunque della malattia degenerativa è potente. Negli anni, diverse delle nostre formazioni sono state dedicate al tema della morte e del dolore, temi che inevitabilmente toccano corde personali per cui è fondamentale in qualche modo affrontarle e farci i conti. 

Sono posti dove immagino che il contatto con la sofferenza sia immediato e diretto. Come fate? Come affrontare tutto questo dolore? Immagino che la commozione sia all’ordine del giorno in questi luoghi. 

Io non lavoro in questi specifici reparti, ma nel nostro lavoro capita spesso di commuoversi.  Sarebbe controproducente negare il lato emotivo. Va fatto costantemente un lavoro nella direzione del tenere una giusta distanza, o meglio la giusta vicinanza. 

Certo una possibilità di rispecchiamento preziosa, ma anche parecchio faticosa, immagino. Non è affatto banale trovare la giusta distanza di cui parli: né troppo vicini, né troppo lontani. 

A proposito del tema della distanza, ricordo una bambina, che era sempre arrabbiata. Non sapevo proprio come fare a raggiungerla, se non accettando la sua rabbia e l'aggressività, che si sono trasformate gradualmente in un gioco tra noi. Abbiamo giocato a far la lotta coi cuscini, che le permetteva di scaricare la sua aggressività, giocandola. Oppure, se siamo in coppia, mettiamo in scena quelli che, nel gergo clownesco, chiamiamo “il Bianco” e “l’Augusto”, due personaggi di cui uno è quello risoluto, il capo, e l'altro lo “stupido”, il maldestro; questo dà modo ai bambini, ma anche ai genitori, di identificarsi in ruoli differenti o di allearsi con o contro uno dei due. Creare un contesto in cui poter dare voce a differenti parti emotive è importante. Ci sono situazioni in cui i bambini sono talmente scuri, cupi e arrabbiati da non lasciarci entrare, ma altre volte riusciamo con delicatezza ad entrare e ad aiutare ad immergersi in una nuova dimensione.  

 

GLI ADOLESCENTI IN OSPEDALE 

Forse anche la possibilità qualche volta di dire di no, perché non si vuole stare al gioco e di avere qualcuno che comunque rimane lì, in una posizione di disponibilità, aiuta. Forse è un modo di far spazio al rifiuto, anche della malattia, alla rabbia di essere ammalati. Forse quel “no” è l’unico rifiuto che si può esplicitare, in un contesto invece dove non puoi che accettare quello che ti sta capitando? 

Ci sono situazioni in cui il “no” che riceviamo è definitivo. Capita soprattutto con gli adolescenti, ce ne sono alcuni che proprio si rifiutano. Forse si rifiutano proprio nell’ottica che hai appena detto.  
In certi casi è proprio necessario accettare il “no”, accettare il loro chiudere fuori tutto. Però, mi vengono in mente casi in cui arriva comunque un “no”, ma non così netto.  Ricordo una ragazza che appena ci vedeva esclamava: “Oddio!”. Così è nato un gioco dall’esterno della stanza: anche noi abbiamo cominciato a esclamare: “Oddio!”. E, alla fine, un abbozzo di sorriso gliel'abbiamo strappato. Per cui, si riesce a giocare anche con i “no”.  

Gli adolescenti vi espongono in particolar modo a delle sfide? Cambia l’intervento che fate con loro rispetto a quello che proponete ai bambini? 

Dipende! Alcuni ci aprono le porte. Certamente gli interventi con gli adolescenti cambiano rispetto a quelli con i bambini. 

Devo dirti che con i bambini me la immagino di più la Dottoressa Pupilla. Invece con gli adolescenti faccio più fatica. Il clown è una figura, se vuoi, del mondo dell'infanzia e gli adolescenti hanno fretta di crescere, di essere grandi. Riesci a raccontarci meglio cosa accade negli interventi con gli adolescenti? 

Con le ragazze uno spunto che ogni tanto offro è che la Dottoressa Pupilla deve rifarsi l'outfit e quindi vuole consigli utili. Spesso i risultati di queste sperimentazioni sono stati molto divertenti. Le ragazze ci stanno, ti danno consigli, anche per quanto riguarda il trucco, o magari condividono la musica, insomma quello che riguarda il loro mondo.  Credo che con loro sia utile anche essere disponibili a lasciare un po’ di più il personaggio di clown, semplicemente per chiacchierare con loro, dei loro interessi.  

 

L’IMPROVVISAZIONE 

Come funziona l’improvvisazione nel vostro lavoro? È tutta improvvisazione oppure capita di prepararvi in qualche modo all’incontro? 

L’improvvisazione è la base del nostro lavoro. Poi ognuno di noi ha i suoi “strumenti del mestiere”, oggetti caratteristici, la propria specialità artistica, alcune routines che danno una certa sicurezza, perché sono i tuoi “cavalli di battaglia” e sai che sono cose che funzioneranno. Io, ad esempio, avevo la “mia tartaruga-guanto”, che ho perso in non so quale stanza di ospedale; Lei era la mia compagna. Ormai era conosciuta, si chiamava Valentina e, soprattutto i piccoli, giocavano più con lei, che non con me, animata con la mia mano e con la mia voce. 

Ti è dispiaciuto perderla? 

Sì, però diciamo che dopo la pandemia ho ricominciato a fare questo lavoro con molta più tranquillità psicologica, paradossalmente con molta meno ansia, non so cosa sia successo. Sto apprezzando il “lavorare con il nulla”, o meglio con il mio corpo, che vuol dire voce, silenzio, movimento, stasi, linguaggi analogici e pre-verbali. 

Forse la pandemia ha aiutato alcuni di noi a rimettere le cose in prospettiva, a ristabilire i pesi di ciò che ci può accadere, ridimensionando quello che ci mette in difficoltà. Che ne pensi?  

Sì, per me è stato così. Durante la pandemia, come dicevo all’inizio, abbiamo provato a lanciare il progetto: “Theodora entra nella stanza nonostante la distanza”. Abbiamo provato a fare delle videochiamate, per non sparire del tutto. Nella comunicazione online si perdeva tanto dei nostri interventi che si basano soprattutto sulla costruzione di una relazione reale nel “qui e ora”, nell’incontro tra corpi in presenza.  Ha funzionato un po’ meglio il progetto delle “Favole della buonanotte”, un progetto che abbiamo lanciato, sempre in quel periodo, in occasione del centenario di Gianni Rodari. Raggiungevamo i bambini attraverso una telefonata in orario serale, momento molto delicato per loro; ci siamo resi conto che la voce può essere molto più potente rispetto alla videochiamata. 

Vorrei terminare citando Italo Calvino, che ha scritto in merito al tema della voce: 

[…] Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci. Una voce mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore. Ciò che ti attira è il piacere che questa voce mette nell’esistere; nell’esistere come voce, ma questo piacere ti porta a immaginare il modo in cui la persona potrebbe essere diversa da ogni altra quanto è diversa la voce. […]
(Tratto dal racconto “Un re in ascolto”, contenuto in “Sotto il sole giaguaro”, di Italo Calvino). 

Avresti da consigliare una lettura, un testo per chi volesse conoscere meglio il lavoro del Dottor Sogni? 

Sì, certo, consiglio vivamente la lettura del libro Dottor Sogni in Pediatria, scritto da alcune colleghe e curato dalla Dottoressa Dorella Scarponi, psicologa dell’IRCCS Sant’Orsola di Bologna, pubblicato nel 2023. 

Federica, io ti ringrazio tanto per la tua testimonianza. È stato molto interessante e spero possa aiutare altri, come ha aiutato me, a capire meglio il vostro lavoro e la sua importanza. 

 

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